di Simonetta Doni
Riapre a Prato il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, e lo fa con una mostra “La fine del mondo” che non poteva trovare luogo migliore per essere ospitata e apprezzata.
“A Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l’onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo”.
Così diceva Malaparte nel suo “Maledetti toscani” osservando i carichi di abiti che arrivavano da tutto il mondo, e che i pratesi vedevano non come un rifiuto, ma come un materiale che qui poteva rinascere, rigenerarsi e ripartire per un nuovo destino.
In un periodo storico come questo, in cui si cercano nuove risorse dagli oggetti che sono arrivati alla fine della loro vita per rimetterli in un nuovo circolo non stupisce che l’arte quando rivolge il suo sguardo in avanti, riparta dalla fine del mondo.
Per il direttore del Museo, Fabio Cavallucci, questa è infatti l’unica chiave di lettura, l’unico filo conduttore, che si sente di proporci come buon viatico per visitare la mostra: un parterre di più di cinquanta artisti di primo livello provenienti da tutti i continenti, giovanissimi e già affermati, lirici e politicamente impegnati, apocalittici e romantici ottimisti.
E’ impossibile non sentirsi rappresentati e coinvolti percorrendo l’anello della galleria che propone un centinaio di opere e allestimenti in successione, senza soluzione di continuità a partire dagli ominidi di Hiroshi Sugimoto che ci accolgono all’ingresso, fino alla folle corsa dei lupi di Cai Guo Qiang che si schianta su una parete trasparente e ricade su se stessa.
Accanto alle opere realizzate per questa occasione, e si possono trovare capolavori dell’arte moderna come Forme uniche della continuità nello spazio, una scultura in bronzo patinato del 1913 di Umberto Boccioni, e poi Duchamp, Fontana e Bacon.
Nessuna contraddizione, perché il viaggio che l’astronave dorata di Nio, come è stato definito il Museo nella sua rinnovata conformazione, vuole portare lo spettatore a vedere il nostro presente da lontano, per esaltarne la condizione dell’incertezza. Uno sguardo reso critico dalla distanza, ma non così tanto da non percepire che si tratta del nostro mondo. Una posizione che costringe a confrontarsi e a chiedersi cosa fare e come porsi per superare la fine del mondo, o se vogliamo, cosa può significare l’arte, (e la cultura per estensione), quando ogni modello ha fallito e la caduta ha raggiunto il punto di non ritorno.
Il museo stesso, opera dell’architetto Maurice Nio, è singolare nella configurazione ma anche nella sua ideazione: si è trattato di ampliare, inglobandolo senza stravolgerlo, il fabbricato esistente ideato da Gamberini negli ani 80 ,e allo stesso tempo di creare una struttura che per la sua vocazione non avesse riferimenti con l’esistente. Un’opera monumentale che si offre come biglietto da visita a chi arriva in auto a Prato e se la trova davanti con la sua “antenna dell’arte” sempre pronta a captare i segnali in arrivo e, se vlgioamo, a trasmetterli verso il resto del mondo.
Una serie di eventi e mostre collaterali sono ospitate contemporaneamente alla mostra in diversi luoghi della Toscana, che hanno visto un prologo delle opere della Collezione Pecci esposte a Firenze e Pisa e nella stessa città di Prato, con Contemporary Tuscany, e con La Torre di Babele, iniziativa che vede i galleristi toscani impegnati in TU 35/2016 dedicato a giovani artisti, e Icastic for Pecci – Anithing to declare? Un fitto programma di rilancio dell’arte che comprende anche conferenze tematiche , rassegne cinematografiche e una rete di collaborazioni permanenti in Toscana a partire dalla Fondazione Strozzi di Firenze.
Un’invasione pacifica è partita con l’atterraggio della navicella spaziale e promette di accompagnarci oltre… la fine del mondo.