di Felisia Toscano
Andare a casa di Mario Carnicelli, significa oltrepassare la soglia del confine tra una mostra fotografica e la storia di quegli scatti.
Vuol dire sedersi ed entrare nel suo mondo, quello del viaggio in America, quello dei funerali di Togliatti, quello del racconto, del documento, dell’archivio.
Guardarsi intorno e vedere sulle pareti dai colori caldi stampe degli anni 60′ e 70′ e riflettere su quanto il bianco e nero sia ancora contemporaneo, così “presente” da farti entrare in punta di piedi nella sua fotografia.
Tra gli scatti di Togliatti, incuriosita chiedo a Mario: qual è la tua fotografia prima di questa importante documentazione?
Mario, sorride: “La mia fotografia è sempre la stessa, è l’umanità. Sin da ragazzo, quando ho iniziato a fotografare mi soffermavo sulla figura dell’uomo. E’ come se negli occhi degli altri riuscissi a riflettere me stesso.
Con la fotografia ho una relazione da tantissimi anni, ero bambino quando per la prima volta entrai furtivamente nella camera oscura di mio padre, in sua assenza, e di nascosto da mia madre”.
Provai ad inserire un “foglio”, l’immagine si impressionò subito su di esso e fu per me una gioia immensa.
Cosa ha significato per te, professionalmente ed emotivamente, essere l’autore delle fotografie del funerale di Togliatti?
“Andai ai funerali di Togliatti non per fotografare, ma per partecipare ad un grande evento, mi recai giorni prima della data stabilita, per scrutare, per osservare.
Arrivarono persone da tutta l’Italia, ma anche dall’estero, in particolar modo dalla Svizzera.
Non immaginavo di vedere una stratificazione sociale così evidente, ricordo i loro sguardi che sembravano essere rivolti a me mentre ero tra la folla con loro, ma questa sensazione durava pochi secondi, quello che guardavano era solo quella grande e sentita emozione.
Tutti erano lì per lo stesso motivo, e non era il funerale o la funzione religiosa, ma il voler dare l’ultimo saluto ad un compagno.
Dai borghesi alle istituzioni, dagli artisti al popolo, non mancava proprio nessuno”.
Facciamo un viaggio, andiamo in America, qual è la tua fotografia preferita nei tuoi scatti americani?
“Forse non ne ho una preferita, ma semplicemente una di cui sono particolarmente geloso!
Ritrae una fabbrica all’interno di uno stabile, dove ci sono muratori di colore bianco e committenti neri.
Era evidente in questa foto un capovolgimento culturale, quella scena si impressionò nella mia macchina come il ritratto di un’umanità che cominciava ad essere rispettata”.
Cosa pensi della fotografia contemporanea, in che posizione ti poni nei confronti dei nuovi talenti?
“Tra i vari settori della fotografia, quello del reportage è di sicuro quello che più mi piace e che più seguo.
Fotografare significa documentare e oggi è una ricchezza!
Ma se dovessi dare un consiglio ai giovani fotografi direi che occorre senz’altro documentarsi, conoscere!
Solo mettendo dentro la conoscenza può venire fuori qualcosa senza emulare, ma riuscendo ad esprimere quello che si ha da dire con consapevolezza”.
Foto di Maria Di Pietro